Di seguito l’articolo a firma di Fernando Pepe e Andrea Ottolini , pubblicato da Diritto24, in tema di trattamento pensionistico con riguardo ai casi in cui il dipendente rassegni le dimissioni al raggiungimento dei requisiti pensionistici e tuttavia prosegua l’attività presso lo stesso datore in forza di nuovo contratto.
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Accade con frequenza, in particolar modo in periodi storici interessati da possibili mutamenti dei requisiti per l’accesso a un trattamento pensionistico, che il lavoratore rassegni le proprie dimissioni al raggiungimento dei requisiti contributivi per il pensionamento, e prosegua tuttavia l’attività presso lo stesso datore di lavoro, nelle medesime mansioni, in forza di un nuovo rapporto di lavoro.
In più occasioni la giurisprudenza si è trovata a statuire su tali pratiche, ed in particolare sulla loro compatibilità con l’erogazione del trattamento pensionistico, nonché – in passato – in tema di cumulo tra reddito e pensione di anzianità (oggi più correttamente “pensione anticipata”).
Sotto il profilo del cumulo tra reddito da lavoro e pensione, nulla questio: come noto l’art. 19, d.l. 112/2008, ha abolito i limiti al cumulo tra pensione e redditi di lavoro, disponendo a far data dal 1° gennaio 2009 – per quanto qui rileva – il possibile cumulo tra reddito da lavoro autonomo e dipendente e le pensioni di anzianità erogate dall’Ago (e dalle forme sostitutive ed esclusive della medesima).
A rivestire ancora una grande importanza – anche per le potenziali dirompenti conseguenze – è invece il profilo dell’effettiva cessazione del rapporto di lavoro ai fini dell’erogazione della pensione.
Occorre infatti ricordare che l’accesso al trattamento pensionistico è subordinato, ai sensi dell’art. 22, l. 153/1969 e dell’art. 1, comma 7, d. lgs. 503/1992, alla risoluzione del rapporto di lavoro, in virtù della presunzione di bisogno (ex art. 38 Cost.) che giustifica l’erogazione della prestazione a carico dell’ente previdenziale.
Su tale tematica è intervenuto dapprima il Ministero del Lavoro, che con l’interpello 19/2009 ha ritenuto che – ai fini della maturazione del diritto alla pensione di anzianità – debba sussistere soluzione di continuità tra il pregresso rapporto di lavoro e l’eventuale successivo nuovo rapporto lavorativo.
Il Dicastero ha in particolare precisato che alla data di presentazione della domanda di pensione non deve sussistere alcun rapporto di lavoro con il medesimo datore di lavoro, essendo in ogni caso necessaria la cessazione del rapporto lavorativo per conseguire il diritto al trattamento pensionistico.
Non solo: la medesima interpretazione, prosegue l’interpello, è da ritenersi applicabile anche all’ipotesi di stipulazione di un nuovo contratto di lavoro con un datore di lavoro diverso dal precedente, tenuto conto che per il passaggio dalla condizione di lavoratore attivo a quella di lavoratore pensionato, è necessario il conseguimento del diritto stesso alla pensione.
Con la circolare 89/2009 l’INPS ha fatto propria l’interpretazione fornita dal Ministero, puntualizzando inoltre che “al fine di accertare l’avvenuta interruzione del precedente rapporto di lavoro, è necessario unicamente riscontrare l’avvenuto esperimento di tutte le formalità conseguenti alla cessazione di detto rapporto: dimissioni del lavoratore, comunicazioni e scritture di legge, liquidazione di tutte le competenze economiche”.
In tale quadro, all’interno del quale prevaleva dunque un’attenzione formale all’avvenuta cessazione del rapporto, è intervenuta la sentenza 27 maggio 2019, n. 14417 della Corte di Cassazione, che dopo aver ribadito, in conformità alla pregressa giurisprudenza (Cass. 4898/2012; Cass. 4900/2012), che la pensione “possa essere erogata solo se al momento della presentazione della relativa domanda il rapporto di lavoro dipendente sia effettivamente cessato”, ha tuttavia aggiunto che nell’individuazione della discontinuità tra la precedente attività lavorativa e quella successiva non si dovrà cercare un mero iato temporale, più o meno ampio, ma considerare che l’immediata riassunzione del lavoratore, alle medesime condizioni, presso lo stesso datore di lavoro, configura una presunzione semplice del carattere simulato della cessazione di tale rapporto.
Ancorché la Suprema Corte precisi che tale presunzione possa essere vinta (e diversamente non potrebbe essere, trattandosi di presunzione semplice) tramite il ricorso a plurimi potenziali indici sistematici, ulteriori oltre al dato temporale, risulta evidente la portata del principio espresso, anche per le conseguenze che la simulazione di cessazione del rapporto comporta (revoca del trattamento pensionistico, con conseguente obbligo restitutorio di quanto percepito dal lavoratore-pensionato).
Le medesime conseguenze descritte potrebbero intervenire anche nell’ipotesi in cui il successivo rapporto di lavoro instaurato tra le parti sia avvenuto tramite tipologie contrattuali nominalmente diverse da quelle del lavoro subordinato (collaborazione, rapporto d’opera ex art. 2222 c.c., incarico di amministratore), di cui tuttavia venga accertata la non genuinità e la riconducibilità a un rapporto di lavoro subordinato.
In caso di prosecuzione dell’attività lavorativa successivamente al pensionamento, saranno dunque possibili indici della cesura tra il rapporto di lavoro pre e post pensionamento da un lato lo stacco temporale tra i due rapporti lavorativi, dall’altro la previsione di mansioni e modalità di svolgimento dell’attività che non siano l’esatta riproposizione di quelle precedenti al pensionamento.
L’articolo è disponibile anche nella versione pdf.